mercoledì 8 febbraio 2017

Milano, gli scali ferroviari da Vicolo Corto a Parco della Vittoria: ovvero la democrazia avviata sul binario morto. Articolo di Davide Borsa pubblicato su ilgiornaledellarchitettura.com








Immagine di copertina: Copyright Edith Roux / Courtesy Editoriale Lotus


Appunti di psicopatologia urbanistica, autovalori dominanti ed ecologia della mente in memoriam Fiorentino Sullo


Economia  – dal greco οἶκος (oikos), “casa” inteso anche come “beni di famiglia”, e νόμος (nomos), “norma” o “legge” – si intende sia l’organizzazione dell’utilizzo di risorse scarse (limitate o finite) quando attuata al fine di soddisfare al meglio bisogni individuali o collettivi 
(wikipedia, ad vocem)
Le funzioni amministrative sono esercitate in maniera semplificata,  prioritariamente  mediante l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi
(Maurizio Lupi)

Lupi per agnelli

Milano si conferma anche oggi, nel bene e nel male come la capitale della ricerca avanzata del post: dimenticate subito le utopie moderniste di progresso civile e culturale, dopo l’apparentemente innocuo camouflagepostmoderno con bricolage di capitelli, piramidi e colonne che nascondeva il disimpegno etico del nuovo che avanza, ora è la volta del postumano….. Alla (fanta)urbanistica futurista dell’assessore Carlo Masseroli, dove la fiducia nelle sorti progressive veniva sostituita dalla fiducia nella buona sorte (e lui, ingegnere dei sistemi, che aveva promesso di ritornare ai suoi amati diagrammi di flusso ora è catapultato a dirigere Milanosesto Spa per lo sviluppo delle aree ex Falck), al decesarismo democratico che ha inabissato la giunta Pisapia e spento per sempre l’alba arancione di Milano (ma a volte ritornano e, amovetur ut promoveturAda Lucia De Cesaris rispunta come grand commis nominata dal Ministero dell’economia a propria rappresentante nel Cda di Arexpo). Tutti ancora al capezzale della suburbanistica del giorno dopo, o fast post, inauguratasi con Expo e ora con Arexpo. Oggi, dulcis in fundo, anche con Pierfrancesco Maran (preconizziamo per lui un futuro di ministro alle infrastrutture….) nel solco della continuità corrono i cavalieri, destri e sinistri, dell’apocalisse urbanistica contrattata di rito ambrosiano sempre a cavallo dei lupi affamati di suolo. Siamo giunti finalmente alla post-urbanistica, proporre e veicolare archifiction, inoculando nell’immaginario sociale la falsa immagine di un ritorno al futuro, ma quando il futuro ormai non c’è più.
Come si può capire fino in fondo questa rivoluzione copernicana dell’urbanistica meneghina?Riassume il meglio delle due posizioni: quella di un mondo che non sarà mai e quella di un mondo che quando si manifesta ha già superato l’orizzonte degli eventi e si ritrae in se stesso annichilendosi e trasformandosi in un buco nero che, come l’Expobuco, si è dimostrato capace d’inghiottire sogni e risorse degli italiani, non meno avido di alcune nostre storiche e ora non più prestigiose banche. È il salto definitivo e irreversibile nella fiction finanziario-architettonica. Come è possibile che tutto accada in una democrazia ormai matura e forse avanzata? Basta deformare l’orizzonte epistemologico che vuole definire il progetto come un processo lineare continuo che parte da un punto (il cosiddetto prima) e arriva a un altro (il cosiddetto dopo), fino a far coincidere i due punti temporali in uno solo, tecnicamente chiamato scenario. Anche costruire non sarà più necessario… La smaterializzazione del progetto comporta la sua scomposizione in quanti fotonici, che per essere liberi di viaggiare alla velocità della luce, si distaccano da tutto quanto viene definito convenzionalmente come iter e legittimazione sociale di un progetto, per entrare nel nuovo ambito dell’aleatorietà determinata ai fini della grancassa della psicopropaganda virale del Ministero della Verità & Marketing. Le soluzioni sono aleatorie e discrezionali ma rimandano a quantità incognite, di autovalori dominanti che snaturano il carattere “pubblico” e la trasparenza del mercato, negoziati in modo opaco e indiretto per poi essere rapidamente cartolarizzati e avviati al consumo.
Come si traduce tutto ciò in burocratese urbanistico? La parola magica è Accordo di programma. Come ha scritto Maria Cristina Gibelli, «è a Milano che ha fatto i primi passi una deregolazione urbanistica che ha poi trovato una configurazione organica con la LR 12/2005 sul Governo del Territorio e i suoi molteplici, e sempre peggiorativi, emendamenti successivi. È a Milano e hinterland che si stanno cogliendo i frutti avvelenati, in termini di coesione sociale, vivibilità, ma anche competitività, di quella stagione». Proprio su questo Accordo di programma degli ex scali Fs (1,25 milioni di mq che possono valere, secondo una stima prudenziale, sino a 1,3 miliardi di euro) si è arenata la giunta Pisapia. Ed è lo stesso Accordo, con qualche intervento di chirurgia estetica e social, che la giunta Sala si appresta a convalidare entro maggio con lo stesso spirito e gli stessi cosmetici principi con cui la giunta Pisapia ha poi ratificato il Piano di Governo del Territorio Masseroli-Moratti. La natura dello scambio segue la classica equazione asimmetrica dell’incremento di valore della speculazione fondiaria: ossia, prendo un’area a valore nullo o addirittura negativo, come in questo caso, e attraverso una trasformazione che è innanzitutto linguistica (la promessa di un cambio di destinazione d’uso), la rendo produttrice d’immaginario, di futuro. Ora bisogna però stabilire se nella promessa di questo futuro la città assume il carattere di feticcio della merce, ossia, parafrasando Arjun Appadurai, tenda esclusivamente «a mascherare i rapporti sociali che rendono possibile la sua appropriazione a scopo di profitto da parte del capitale» (Scommettere sulle parole. Il cedimento del linguaggio nell’epoca della finanza derivata, Milano 2016, p. 17).
Architettura quindi non più come disvelamento, come invenzione critica, come nuova utopia del possibile, frammento di verità, progetto di emancipazione culturale e sociale, ma come tragica maschera che nasconda le contraddizioni e la falsa coscienza dei rapporti in atto, supina ai dettami imperanti dello spirito dell’incertezza.Architettura come formalizzazione, astrazione e commercializzazione del meccanismo del rischio stesso. Allora niente di meglio che l’immarcescibile visione del paradiso che, come ci ha spiegato Marcel Proust, è solo quello che abbiamo perduto. Come tutte le visioni beatifiche, sono misteri che oltrepassano la capacità di rappresentazione sensibile e la comprensione razionale. E allora avanti ancora con quell’ormai trita, frusta e paradossale menata improponibile della città giardino universale dove tutti non fanno altro che passeggiare ridenti e giulivi, innaffiano le piante sui terrazzi rigogliosi dove fioriscono orchidee perenni, vanno in bicicletta e portano a spasso cani…
Così si compie il miracolo della trasformazione di un reietto terzo paesaggio postindustriale “scalo ferroviario obsoleto da bonificare”, un Vicolo Corto pieno di problemi logistici, infrastrutturali e costi di bonifiche ambientali, a un meraviglioso “Central Park” (Public Garden non si usa più…) che rimanda alla favolosa casella del Parco della Vittoria del Monopoli, su cui tutti vogliono mettere le mani. Al subentrato “Central Park” vengono poi attribuiti dei volumi virtuali trasformati immediatamente in denaro sonante per i fortunati proprietari delle aree medesime, al di là che poi le suddette volumetrie vengano prima o poi realizzate. La società titolare delle aree (Ferrovie dello Stato, che ha appena acquisito la linea 5 della metropolitana, e spinge da tempo anche per rilevare la maggioranza in Trenord al posto della Regione…), acquisiti i diritti “rapinati” con le equivoche pratiche di sdemanializzazione alla Giulio Tremonti, una volta firmato l’Accordo di programma li iscrive a bilancio ed è così ora pronta a quotarsi in borsa per poi essere privatizzata dagli speculatori finanziari. La polpetta indigesta viene poi condita in salsa social e adeguatamente lubrificata dalla politica compiacente, dall’establishment di programmatori e facilitatori, espertoni meglio se professori specialisti in supercazzole tecnichesi e storytelling a lieto fine, stampa compiacente, menestrelli e azzeccagarbugli specializzati nel paralogismo politico.
Dispiace vedere sempre in prima linea rettori e direttori di dipartimenti universitari e politecnici(di per sé enti terzi e non fiancheggiatori conto terzi… spesso chiamati sempre in camera caritatis, quando l’operazione è riuscita e il paziente è morto), pronti a correre al capezzale di una politica sputtanata per spendere le ultime briciole di dignità rimasta a fare da stampella alle strampalate e raffazzonate speculazioni territoriali che servono a colmare i buchi di bilancio di altrettante e spregiudicate gestioni finanziarie di enti pubblici e parapubblici come Fiera, Aler, ospedali, ecc., a cui si aggiungono, come contorno, il circo barnum dei visionari zelanti architetti con incarichi diretti o pseudodiretti, sempre compiacenti nell’offrire i propri servigi, ansiosi di lasciare il segno in ogni angolo della città, rigorosamente bipartisan, assunti in pianta stabile a tutto regime per la clonazione indefinita dello status quo e delle sue best practices, con sprofluvio di kermesse, articoli, forum e seminari, senza dimenticare spruzzate quanto basta di proteste e opposizioni antagoniste tanto per far credere che la democrazia sia ancora viva. Ma Milano non era la capitale dell’intellighentia critica? «Lotus International» ha dedicato un Forum e il numeroMeteo Milano al dibattito in corso.
Un film già visto con la Fiera delle vanità, i grandi quartieri di lusso, gli Ospedali riuniti, l’Expoballa, Cascina Merlata… Ora è il turno degli scali ferroviari che, però – e questa è forse la maggiore difficoltà -, sono incuneati nel tessuto del cuore di Milano e lambiscono la città storica e i quartieri che ne costituiscono l’ossatura identitaria e il patrimonio genetico. Un’operazione a cuore aperto, irreversibile, che rischia di sfigurare per sempre ciò che è sopravvissuto dell’identità di Milano.
Anche per questo, tra i più di trecento architetti e firmatari dell’appello (rassegna stampa, elenco firmatari e interventi nel sito scaliferroviarimilano.blogspot.itè nata l’idea di costituirsi nell’associazione “Città bene comune”, per affermare il primato della cittadinanza attiva, ben consapevoli che non saranno i tecnici, i regolamenti, le dispute di diritto, il finto teatrino della politica a salvarci ma solo la vera politica con la P maiuscola, ovvero quella che, come diceva Aristotele, significa amministrazione della polis per il bene di tutti: la determinazione di uno spazio pubblico al quale tutti i cittadini partecipano.

Débat public alla milanese…

Salzwasser in der Tennishalle! Ja, das ist ärgerlich, aber nasse Füße sind noch lang nicht das Ende der Welt
(H. M. Enzensberger, Der untergang der Titanic)
Nella palude conformista milanese qualcosa non ha funzionato. Il dubbio si è fatto sospetto, a cui son seguiti la paura, lo sconforto e il tormento di un’angoscia ricorrente. Gli spettri dell’omologazione globale, i mostri come il quartiere fantasma griffato Daniel Libeskind di condomini sghimbesci abitato solo da dj tatuati con la Porsche, le Costa Concordia arenate di Zaha Hadid in piazza Giulio Cesare, i grattacieli mignon di City Life, la turbina a vento di Cesar Pelli sono ormai tra noi! Questi fantasmi si aggirano cupi e minacciosi nel salotto buono, turbando le coscienze dei milanesi che hanno sviluppato ormai una punta di diffidenza bipartisan, nonostante tutti gli sforzi della politica di sedarli e gli imbonitori che vendono lambrusco spacciandolo per champagne.
Alla luce di queste non esaltanti esperienze, risulta oltremodo patetico il tentativo di far passare per débat public quello che invece è astuta opera di disinformazione politica e di creazione del consenso. Meccanismo ormai rodato, per quelle operazioni di mattone deluxe certo più alla portata del fiato corto e delle idee stantie della politica contemporanea che dell’urbanistica avveduta e previdente e della pianificazione strategica lungimirante. Una politica che di moderato ha spesso solo la cultura e la fiducia nell’intelligenza critica.
Nonostante tutto e forse anche meno male, non sono bastate certo le cure e visioni dei cinque architetti-scenografi chiamati al capezzale per tessere gli scenarios e stimolare l’appetito degli investitori a sedare la diffidenza dei milanesi. Questo l’obiettivo della tre giorni di workshop milanese organizzata a fine dicembre 2016 da FS in “collaborazione” con il Comune. Dopo il lungo battage del «Corriere della Sera» sulle neoallucinazioni forestali del transgenico e sempre più green Stefano Boeri (il cosiddetto Fiume verde, il Pratone…), FS ha chiamato lo stesso Boeri (Studio SBA) e il “secchione” Cino Zucchi (CZA, che forse si poteva risparmiare la pagliacciata…), oltre a Benedetta Tagliabue (EMBT), all’olandese Francine Marie Jeanne Houben (Mecanoo) e al cinese Ma Yansong (MAD Architects). In attesa, come recitava il comunicato stampa, «del supporto di un advisor tecnico internazionale, le idee dei cittadini saranno trasformate in elaborati e modelli. Le cinque visioni possibili verranno presentate al Comune di Milano nel marzo 2017. L’Amministrazione comunale deciderà successivamente come gestire il processo di trasformazione urbana. Farini, Porta Romana, Porta Genova, Greco-Breda, Lambrate, Rogoredo, San Cristoforo sono i sette scali ferroviari milanesi inseriti nel progetto di riqualificazione, per una superficie complessiva di un milione e 250mila metri quadrati».
La musica è sempre la stessa… nonostante il Gran Ballo Excelsior di politici locali e nazionali, la variegata fauna di biodiversità architettonica presentata, l’ottimo catering, il parterre prestigioso e gli special guest a stuzzicare l’atmosfera festosa e arguta da Festival della mente, oggi di gran moda, la partecipazione prefestiva alla tre giorni in massa di architetti affamati di crediti formativi e di pressoché tutto il Comune di Milano in licenza studio. Oggi finalmente un pionieristico studio (A. Casavola, Perché comprare Parco della Vittoria conviene? Modellizzazione e studio sugli autovalori dominanti del gioco del Monopoli, s.d. Università della Calabria), ha messo a disposizione una tabella dei valori fondiari che ci consente di capire le ragioni profonde di tanto agitarsi: «Abbiamo quindi in questa tabella dei fattori che ci permettono di determinare la convenienza relativa di un appezzamento rispetto agli altri, tenendo unicamente conto della rendita che essi sono in grado di garantire. In questa modellizzazione notiamo che l’elemento che continua a rimanere per rendita asintotica e massimale più conveniente è Parco della Vittoria, sebbene non sia il più frequente: questo primato spetta infatti (tra gli appezzamenti che danno rendita) a Corso Raffaello». L’autore subito ammonisce sull’esagerato ottimismo che potrebbe derivare dalla sensazionale scoperta: «Si noti infine la logica e attesa altissima frequenza della prigione, dovuta all’uso della regola del doppio sei».
Per questa urbanistica contrattata di rito ambrosiano è sempre buono il momento di proclamare che due più due fa cinque, e farcelo credere. Era inevitabile che prima o poi succedesse, era nella logica stessa delle premesse su cui si basa. La visione del mondo che la informa nega, tacitamente, non solo la validità dell’esperienza democratica ma l’esistenza stessa di una realtà esterna all’infuori di essa stessa.
In questa strategia della distensione e della creazione del consenso, la narrazione verde assume i toni di un astutocamouflage, che serve a nascondere i veri problemi di una programmazione che si è allineata alle prospettive di rischio e di performance sul brevissimo termine, e a quei calcoli che appartengono più alle prospettive monopoliste e di dumping finanziario tardocapitalista in una prospettiva di mercato viziato e drogato che alle logiche di promozione e sviluppo di una città, di un distretto territoriale. L’ormai inflazionata sussidiarietà, di per sé non un male, cercava di rimodulare il controllo dei rapporti stato-individuo sulla scala territoriale. Ha praticamente fallito, in quanto, a parte nicchie ecologiche particolari non fa altro che amplificare e duplicare difetti già immanenti alla scala del potere centrale, per di più appesantite dalle consuete dinamiche socioantropologiche. La distribuzione di poteri e poltrone in una prospettiva socio-territoriale ancora più angusta non ha fatto altro che annichilire le responsabilità e la capacità decisoria intorno ad argomenti di generale interesse nazionale. Un altro effetto perverso è stato quello di prosciugare e smontare quelle sacche di sapere professionale e di buona pratica amministrativa che resistevano nella macchina comunale per affrontare le sfide strategiche e di larga scala, oggi rese ancor più critiche dalla questione irrisolta della “regione metropolitana”. In altri casi, la gestione “dal basso”, come spesso è avvenuto per i beni culturali, è riconosciuta come un micidiale boomerang compromissorio, dove lamancanza di una chiara distinzione tra ciò che è di natura intrinseca bene pubblico e ciò che è privato, a causa di una legislazione incoerente e carente sul fronte delle garanzie di legittimità e per interpretazioni viziate per conflitto d’interessi, in mancanza di una legislazione aggiornata ma soprattutto efficace, ha spesso generato, nei casi non giudiziari, equivoci e proliferazione di contenziosi. Il carattere di contratto negoziale tra attori, assunto nella quasi totalità dei casi, ha naturalmente bisogno di un quadro legislativo raffinato e di controlli efficaci e tempestivi per garantire trasparenza, equità e legalità(favorire, non garantire a tutti i costi il negoziato). E non è detto che basti, ossia è condizione necessaria ma non sufficiente, perché è indispensabile che tutto avvenga in un quadro sociale che attui il pieno rispetto di un corretto e fisiologico esercizio delle virtù democratiche.
Per questo, e per la persistente consapevolezza di una cronica incapacità di attuare un indispensabile aggiornamento senza derogare dai principi cardine della Carta costituzionale, il rapporto società-politica deve essere inquadrato anche nei termini di una “revisione” dei principi del contratto di gestione amministrativa che regolano anche il rapporto della gestione dei beni comuni, che s’intrecciano con un diritto privato oggi sempre più aggressivo e prevalente. Questa materia “sensibile” ha avuto finora scarso ascolto dalla politica in termini legislativi, e ha spesso costretto all’uso del referendum, ma ha costituito un fertile terreno di confronto tra “beniculturalisti” e “benicomunisti”, costituzionalisti, ambientalisti ed ecologisti. E ora, per la prima volta, ha destato anche una folta rappresentanza di architetti, urbanisti, intellettuali e cittadini attivi, una società civile milanese trasversale, transgenerazionale e bipartisan, che al grido di Città bene comune” ha trovato una naturale, inedita convergenza “politica” di obiettivi, cercando nuovi strumenti e spazi per opporsi, resistere e denunciare rischi e limiti di una situazione che si è protratta per troppo tempo e i cui guasti non siamo in grado di prevedere fino in fondo.

Davide Borsa

venerdì 27 gennaio 2017

L'opinione di Paolo Deganello sugli scali ferroviari milanesi




















Gli scali impongono l'elaborazione di un progetto sulla mobilità sul territorio che però é elaborazione possibile se solo prima si definisce quale "tipo di città" si vuol progettare, a partire dai "1.300.000 metri quadrati di cui soltanto il 10 per cento continuerà ad ospitare binari attivi".
Giustamente il prof. Giancarlo Consonni nella sua adesione mette in evidenza, dalla Bicocca all’Expo a City life, cosa vuol dire delegare ai proprietari di aree. Queste sono alcune delle molte grandi occasioni mancate i cui risultati tutti negativi sono ben presenti nella Milano d’oggi. Sull’ultimo numero di Lotus su Milano, un bell’articolo di Nina Bassoli  legge giustamente lo scalo Farini un "Grande Vuoto". Teniamo presente che i sette scali sono prima di tutto sette grandi vuoti.
Propongo di costituire un gruppo di lavoro ristretto che considera  che questi vuoti devono oggi e in prospettiva riempirsi di una nuova città  che viene domandata ma che nessuno ha ancora  interesse a costruire , capace con la sua carica innovativa di riqualificare la città tutta esistente. Il limite dell’articolo della Bassoli è di pensare che si possa trovare dentro la cultura disciplinare dell’architettura, per quanto estesa anche ai contributi di un  Lucius Burckhardt, sociologo, economista ma anche storico molto presente nelle discipline del progetto, una risposta innovativa a questi grandi vuoti da riempire.
Credo che la politica ci deve dare le linee guida per riempire questi vuoti con un'altra città domandata ma non costruita, capace di riqualificare e aggiornare l’abitabilità  urbana oggi. Guido Montanari docente di urbanistica a Torino, ma sopra tutto assessore all’urbanistica del comune di Rivalta di Torino, 19mila abitanti, cancellò con il consenso cittadino 30.000 metri quadri di terreni edificabili del PRG vigente. Maurizio Mangialardi, sindaco di Senigalia e presidente Arci Marche, ha chiesto con successo a 165 proprietari di terreni di rinunciare all’edificabilità prevista nel vecchio piano e di convertire con variante al piano questi terreni alla sola vocazione agricola. L’elenco di queste iniziative, soprattutto nei piccoli centri, può continuare. Abbiamo giá costruito troppo e la prima azione poltica da chiedere e pretendere da una amministrazione oggi è di promuovere il contenimento dell’edificazione alle sole molte strutture di servizio collettivo di cui la vecchia cittá è carente. Parte di questa richiesta è non solo il verde, foglia di fico di ogni speculazione,  ma la “valorizzazione agricola” dei vuoti urbani. Sappiamo tutti che i progettisti di FS Sistemi Urbani ci proporranno piu o meno storti grattacieli “affogati, mimetizzati, nascosti” dentro estese aree a verde più o meno attrezzate. Si estenderà sempre piu la “furbata” di legittimare l’incremento di cubatura residenziali di lusso con terrazzi alberati, muri verdi, magari si proporranno anche orti urbani ad ulteriore legittimazione, insieme al verde, della logica immobiliare. Non è un verde a legittimazione di nuova edificazione commerciale, sempre tendenzialmente di lusso, quello che chiediamo.
L’Amministrazione deve prendere atto che il già edificato è eccedente la domanda di cubatura costruita da gestire nel libero mercato, che è necessario il riuso edilizio del già edificato e che la grande domanda di case è una domanda di casa sociale, casa socialmente necessaria per chi nel mercato non può essere protagonista. La nuova città dentro la città può essere una città domandata che non è stata ancora costruita, che rilancia l’edilizia pubblica e diventa la città dell’Inclusione. Questi sette vuoti urbani possono diventare una cittá dell’incontro tra centro e periferia, nuove cittá a bassa edificazione, tutta socialmente motivata a riequilibrare la logica perversa dell’edificazione immobiliare speculativa che ha costruito la città circostante, capace di venire incontro ad una domanda di casa che la vecchia cittá che sta nell’intorno di questi vuoti non riesce a soddisfare. Nei vuoti edificati in dimensioni molto contenute, dove il suolo è anche occasione di una agricoltura urbana prima che di ameni parchi, dove i soggetti sociali piú fragili possono ritrovare l’interesse ad una agricoltura urbana. L’inclusione comporta che si dovranno anche localizzare abitazioni per immigrati quali parte di un tutto che non trova casa nel mercato, ma anche centri giovanili e tutti quei servizi che facilitano l’inclusione dei nuovi arrivati, scuole, strutture di inclusione scolastica, asili, case laboratorio per la valorizzazione di saperi artigiani di diversa provenienza, che sono una risorsa non una disgrazia, luoghi di culto per etnie diverse, spazi per la promozione culturale delle mille diversità, una città che sa valorizzare immigrazione e rifugiati che sono già e sempre piu possono essere la linfa vitale, non per le periferie degradate, ma per una nuova modalitá di fare cittá. Organismi di autogestione che promuovano e facilitino una riprogettazione dal basso della città (si veda l'ultima Biennale di Architettura curata da Alejandro  Aravena).
FS Sistemi Urbani commissiona ad architetti “prestigiosi “ nuove “visioni “urbane, come se il progetto fosse una questione di “rendering “piu o meno accattivante, non una precisa scelta politica. A questa strategia camuffata di cittá ormai vecchia e sempre meno abitabile contrapponiamo una città dell’inclusione estesa a tutti i soggetti deboli, da realizzarsi nei vuoti urbani degli scali, e questo è il progetto politico che come progettisti rivendichiamo, non il lamento di professionisti esclusi. C’è un'altra cultura del progetto, che non interessa certo la grande finanza, certamente minoritaria ma che non rinuncia ad usare il progetto come bene comune. Certo è un progettare volontario, ma ben diverso del progetto di "rammendo" delle periferie del Senatore Renzo Piano. Noi proponiamo nei vuoti una nuova città ponte tra centro e periferie che cerca di usare i vuoti degli scali per realizzare il progetto di una profondamente diversa città che, ripeto, viene domandata, non è progetto utopico
Molti progetti, nei corsi del Politecnico, hanno coinvolto giovani architetti o ancora studenti che hanno affrontato questo tema. Possiamo chiedere ai docenti che hanno affrontato nei loro corsi i temi degli scali di mettere insieme eventuali progetti che andavano in questa direzione? Possiamo invitare gli studenti a presentarli e spiegarli ? Quei giovani progettisti potrebbero partecipare ai nostri gruppi di lavoro e diventare i progettisti di quei concorsi che comunque anche Maran ha promesso. Un progetto dal basso non può ignorare i giova i progettisti.
A partire da queste sette città nuove nella città esistente va affrontano  il grande tema della mobilità, con un gruppo con competenze specifiche, un tema che faccia diventare questi vuoti luoghi nevralgici di connessione tra centro e periferia, Ovviamente una mobilità sempre più pubblica.

Paolo Deganello

giovedì 26 gennaio 2017

L'opinione di Maria Carla Baroni sugli scali ferroviari milanesi




















Non sono nè un'architetto, nè un'urbanista, nè una trasportista, ma una "politica", nel senso che amo partecipare a tutto quanto riguarda la città (tà politicà) e in questa veste, oltre che per il mio incarico di partito, desidero lanciare alcune idee, alcune suggestioni sul riuso e sulla riqualificazione degli ex scali ferroviari, che a mio parere costituiscono in buona sostanza la revisione del PGT che la giunta sta avviando.
Per la dislocazione degli ex scali nella città la loro riqualificazione dovrebbe connettersi strettamente anche al cosiddetto "Piano periferie" di Rabaiotti, che non deve limitarsi al recupero edilizio e alla riqualificazione energetica dei quartieri ERP, Che pure è improcrastinabile.
In primo luogo - BEN PRIMA di progettare che cosa realizzare in ogni singolo ex scalo - bisognerebbe  a mio parere utilizzare il complesso delle superfici come spazio per potenziare e ridisegnare la mobilità con mezzi pubblici delle persone in senso trasversale e circolare, come hanno fatto o stanno facendo altre grandi città europee, smettendola con le linee radiocentriche e tenendo conto che la Città Metropolitana di Milano è in senso fisico una unica città, che va considerata, connessa e riqualificata in quanto tale.
Che cosa prevede in materia di mobilità il Piano strategico del territorio metropolitano approvato nel maggio 2016 da un Consiglio metropolitano di secondo livello nell'ignoranza e nell'indifferenza generale?
Come secondo aspetto a me piacerebbe molto che all'interno di ogni ex scalo si realizzasse una PIAZZA centrale, riprendendo la tradizione italica della piazza, dall'agorà della Magna Grecia al foro delle città romane alle piazze medioevali e rinascimentali e pure moderne e contemporanee; non solo una piazza bella e vuota, ma come luogo di incontro e di attività varie, anche come luogo di governo, con la presenza di sedi istituzionali, come la piazza era un tempo.
Perchè ad es. non realizzare nelle piazze dei 7 ex scali nuove e più belle sedi per 7 Municipi, adibendo le attuali sedi degli stessi ad altri servizi comunali, ad es. ai Centri Donna Polivalenti, e ad altre attività pubbliche o di interesse pubblico? soprattutto per la socialtà e la cultura, gestite direttamente dal pubblico o anche da soggetti sociali a cui assegnarle a canone simbolico?
Come terzo aspetto a me parrebbe fondamentale connettere le nuove realizzazioni - edifici e verde pubblico - al tessuto urbano circostante, spesso anomimo e brutto, progettando unitariamente, come funzioni e come architettura, il "dentro" e il "fuori intorno" a ognuno degli ex scali, in modo che ogni progetto non rimanga una cattedrale nel "deserto" urbano, ma contribuisca alla riqualificazione dei quartieri circostanti, di edilizia pubblica o privata che siano.
COME connettere il "dentro" e l' "intorno" e fino a che distanza dal "dentro"? ciò dovrebbe dipendere dalle caratteristiche edilizie, funzionali, sociali dei quartieri circostanti e dal che cosa serve per riqualificarli e per dotarli delle funzioni,  dei servizi e degli elementi qualitativi mancanti.
Elementi di connessione potrebbero essere: raggi verdi attrezzati, passerelle attrezzate, richiamo di elementi architettonici o comunque visivi (monumenti, statue, fontane, ecc.), edifici da recuperare e nuovi spazi verdi o riqualificazione di spazi aperti più o meno abbandonati nei quartieri circostanti, da realizzare contestualmente al progetto "dentro" l'ex scalo, e non so che altro.
Non ho risposte, non è il mio mestiere: pongo solo una questione che a me pare fondamentale.  
Rimane l'esigenza di realizzare molta nuova edilizia pubblica di qualità (edilizia, energetica e anche estetica).
Si pone ovviamente il problema dei costi, Ma è risaputo che quando c'è la volontà i soldi si trovano. Si tratta di effettuare delle scelte. Ci sono poi i fondi europei e le fondazioni che si aspettano un ritorno di immagine in cambio di interventi di interesse pubblico. Anche questo non è il mio campo, ma a Milano non mancano esperti in materia.
Maria Carla Baroni

martedì 3 gennaio 2017

L'opinione di Maria Cristina Treu: "Sugli scali ferroviari"



















Tre sono le motivazioni della contrarietà di molti nei confronti della recente iniziativa di FFSS e della città di Milano
La prima ci obbliga a ricordare che le prime riflessioni e elaborazioni sui destini degli scali sono state condotte almeno in due occasioni che, negli ultimi dieci anni, hanno visto l’Amministrazione Comunale e le  FFSS collaborare con più architetti e studenti del Politecnico oltre che esperti in altre materie e con i cittadini interessati. Come di programmatica queste elaborazioni sono state presentate in più incontri pubblici durante i quali sono state presentate più proposte, oggi, documentate in apposite pubblicazioni
La seconda ci ricorda che nelle occasioni su ricordate più di una voce si è sollevata per impegnare le amministrazioni a esprimersi su una visione di futuro , di una città per chi, di quella che molti considerano un’area metropolitana con una grande attrattività per la presenza di centri di produzione innovativi nella formazione e nella cura della salute, non così per quanto attiene la qualità dell’ambiente e la mobilità.
Ma che fine hanno fatto queste elaborazioni che, al di là dei costi monetari e umani, avrebbero potuto suggerire quantomeno un programma di cura per queste  aree “sospese” tra una piccola città come Milano  e i comuni della sua area metropolitana che, prima ancora di una risposta sulle potenzialità edificatorie, si aspettano di essere inseriti in un rete di servizi che agevoli l’accessibilità alle grandi funzioni urbana.
La terza motivazione riguarda il metodo che Comune ci ripresenta come innovativo per la partecipazione cui si richiama e per il coinvolgimento di  architetti e di esperti che dovrebbero suggerire un disegno, un Piano Attuativo, per gli stessi scali. Eppure il comune ha già a sua disposizione non solo i materiali già depositati e resi pubblici delle elaborazioni su ricordate ma anche la valutazione di altre esperienze, come quelle dei Nove Parchi per Milano e il Metro Bosco, iniziative non sempre concluse anche per quanto riguarda le operazioni immobiliari che vi erano sottese.
D’altra parte l’intervento dell’Amministratore delegato delle FFSS ha ribadito, nel corso del suo intervento nel terzo giorno della recente iniziativa pubblica sugli scali, che il core business della holding da lui diretta è costituito dalla rete del trasporto su ferro che dovrà essere integrata con quella del Trasporto Pubblico locale. Una affermazione più che condivisibile se non altro per il fatto che, oggi, i servizi a sostegno delle nuove economie di scala sono soprattutto le reti materiali e immateriali . Inoltre le FFSS dovrebbero essere dotate da un programma di opere per inserire l’area metropolitana nella rete internazionale, regionale e locale del trasporto su ferro in accordo con la rete delle metropolitane e della viabilità su gomma. Una posizione impegnativa soprattutto se si ricorda che da pochi giorni è stata aperta la nuova Galleria del Gottardo destinata anche al trasporto di merci . Merci che, sul versante italiano, rischiano di andare a incrementare il trasporto su gomma.
Ciò detto non è proprio il caso di imputare una posizione strumentale a chi chiede al Comune l’urgenza di indire un concorso aperto a tutti sulla base di linee guida ben più definite di quelle appena deliberate: in mancanza di valori qualsiasi cosa può essere ammessa e il rischio è un accordo di programma asimmetrico tra un soggetto pubblico ed uno privato su aree di provenienza demaniale. Un accordo di natura prevalentemente immobiliare in assenza di un programma integrato per la mobilità e una rete di spazi verdi di connessione tra l’abitato urbano denso e i grandi parchi sovra locali.
Gli spazi di cui stiamo parlando hanno una storia che rinviano a un insieme di questioni non solo urbanistiche; non sono spazi liberi adatti a qualsiasi utilizzo a partire da quello immobiliare per estrarre rendita e capitalizzare un patrimonio per collocarsi in borsa. Ogni spazio va pensato in relazione alla città nel suo complesso e soprattutto rispetto all'ambiente sociale, culturale ed economico in cui è stato prodotto e oggi si viene a trovare: gli scali sono aree che la città non conosce e che,  oggi, possono produrre reddito e, al contempo, costituire una opportunità per migliorare le condizioni di vivibilità dell’intera area metropolitana. Questi spazi non sono tutti uguali e ogni decisione sul loro utilizzo non può che derivare da una conoscenza storica, da una prospettiva sociale e da una dimensione etica prima di ogni altro interesse economico. La riqualificazione degli scali ferroviari è una prova importante per la pianificazione urbanistica e per l’architettura contemporanea: richiede di sostenere un programma di bonifiche, di avviare  iniziative di cura dei manufatti e di coinvolgimento delle persone che vivono nell’area e nei quartieri limitrofi, di intervenire senza definire e normare ogni angolo di spazio,e soprattutto, impegna l’amministrazione comunale in un lungo percorso di realizzazione di opere e di valutazione dei risultati.

Maria Cristina Treu

Considerazioni  del  filosofo Papi
Vorrei ricordare che l’approvazione di un accordo di programma comporta, a norma del comma 6 dell’art. 34 del D.Lgs. n. 267/2000, la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza delle opere e che questi tre requisiti sono inscindibili. Vorrei sbagliarmi ma almeno l’indifferibilità e l’urgenza non li vedo proprio, sopratutto nell’attuale situazione del mercato edilizio e per le ragioni ben illustrate dalla ricerca condotta nel 2015 dal Politecnico di Milano: “E infine i vincoli e le opportunità rintracciabili nei profili amministrativi, dovendosi ancora precisare se l’attuazione degli interventi opererà in variante o meno alla pianificazione vigente e quali siano le condizioni di fattibilità procedurale di eventuali “usi temporanei”. La lunga prospettiva temporale della trasformazione, infine, che va ben oltre l’arco decennale di cogenza dello strumento pianificatorio – conformativo, suggerisce l’adozione di una strategia di “manutenzione continua e programmata” la cui gestione sia affidata a un qualificato Collegio di Vigilanza (Bazzani).”.